Revolution winter
 
Black Candy 'Candinista' Revolution winter è una delle canzoni più vecchie del repertorio delle Black Candy, e pare che ultimamente non abbiano più tanta voglia di suonarla dal vivo.
Forse è giusto così. Un gruppo rock non dovrebbe mai rimanere fermo un attimo, e da quando le conosco ciò sembra riuscire incredibilmente facile al trio modenese. Tocca a noi cercare di stargli dietro.

Revolution winter, decima traccia di Candinista, il loro autoprodotto disco d’esordio, è costruita intorno a un giro di basso molto orecchiabile, pochi semplici accordi di chitarra, e la batteria di DJ Amarezza che stoppa e riparte veloce in continuazione, generando un senso di nervosa attesa soddisfatta solo dal ritornello, dove si spiegano in pieno le potenzialità del ruvido pezzo.
La voce di Mara (con un inquieto contrappunto parlato di Alice) qui è più immediata, più distesa e meno preoccupata di arrabbiarsi, almeno all’inizio. Sta raccontando questa storia e le parole descrivono un'immagine forse lontana, apparentemente felice, di un parco immerso in un freddo inverno eppure “fatto apposta per te e me”. I due stanno girando in bicicletta, con la sciarpa fin sugli occhi, parlando delle incredibili band che saltavano fuori nel 1985...

Quali, posso solo provare a intuire: l’esordio di Beat Happening (da una cui canzone le Black Candy prendono a prestito il nome), quello di Dinosaur Jr. e di Jesus And Mary Chain, New Day Rising degli Hüsker Dü, i Minor Threat e la scena di Washington, oltre a Rites Of Spring ed Embrace citati esplicitamente nel testo. E i Pixies erano lì lì per nascere.

Black Candy polaroid

Non è una posa il modo in cui le Black Candy prendono la musica che sentono più vicina a loro e la reinventano oggi.
Dopo aver visto quasi ogni loro concerto negli ultimi dodici mesi, mi sono convinto che quello che ci dicono suonando nel modo in cui suonano, quello che ci mostrano stando sul palco (su ogni genere di palco: da quello storico del Covo di Bologna, a quello di una minuscola sagra di provincia) nel modo in cui ci stanno, con molta ironia e altrettanta convinzione, ha a che fare con qualcosa di più grande e solenne. Qualcosa di cui le Black Candy si sono appropriate spontaneamente e che merita rispetto.

Sto parlando di ciò che la musica rock dovrebbe significare per noi che la stiamo ad ascoltare, e ne parliamo tutto il giorno, noi che anche quando pensiamo ad altro usiamo la musica (e la gente che parla di musica) come metro. Qualcosa che ci spinge ad alzarci in piedi e a non stare fermi, e a cantare felici e pop Straight to your hands come se avessimo quindici anni, qualcosa che ci aggredisce con troppa sincerità, che ci viene addosso, e di fronte a cui si usa troppo spesso il sarcasmo come schermo.
  Ho ascoltato diverse persone (quelle che si sono limitate a stare in fondo alla sala con un ghigno) non riuscire ad andare più in là di osservazioni del tipo “le Black Candy non sanno suonare”. Eppure sappiamo da tempo che non è questa la cosa importante, o almeno non è quella decisiva.
Che cosa c’è, allora, in ciò che le Black Candy “non sanno fare” che le rende speciali? Perché le Black Candy sono grandi e suonano grandiosamente anche quando si dimenticano di accordare le chitarre e il pezzo cambia tempo troppe volte?

In alcuni momenti, quello che si sente è soltanto irruenza, fragore, energia liberata con il solo obiettivo di farla scoppiare. La canzone 3 Chords/Garage/Fine fa quasi venire il dubbio che l'ultima parola del titolo sia proprio pensata in italiano: tre accordi, sporco garage rock, e fine, basta così, non occorre altro.
In altre occasioni i dettagli sono più curati: in Automatic Lock quello che le parole disarmate mettono a nudo (quel “I miss you so much” conclusivo, quasi pronunciato con un broncio) è mescolato a suoni cupi e abrasivi e una melodia gridata e sofferente.
DJ Amarezza @ polaroid Le reazioni che vibrano sotto pelle, a cui di solito resistiamo per paura di sembrare degli ingenui (oh, ecco il vero peccato originale della scena musicale), con le Black Candy diventano un nervo completamente scoperto.
La domanda centrale di Revolution Winter è “come posso spiegare / come posso dimenticare” e resta così, inarticolata come un groppo in gola. C'erano tutti questi gruppi che scoprivi e ascoltavi da ragazzina, ed eri una cosa sola con la musica (non avevi bisogno di ricamarci tanto sopra), e adesso se ci ripensi (cazzo, sono passati vent’anni da quei dischi) vuoi fare qualcosa, devi fare qualcosa. Ecco: prendi il basso, la chitarra e la batteria, per esempio. Qualcuno di noi tre a turno sta dietro il microfono, e adesso vogliamo farvi sentire tutto quello che sentiamo noi. Ed è rock, e tutto comincia da qui.
  Era una rivoluzione, e qualche volta lo è ancora. Sapete, nelle rivoluzioni c’è questa idea di circolarità del tempo, in cui ci si riappropria della storia, e il passato diventa qualcosa con un nuovo significato. Fa freddo, “it’s a fucking cold winter”, cantano le Black Candy, ma se ballate lo sentirete di meno. E’ rock, e tutto comincia così.
 

Enzo Baruffaldi
febbraio 2004

 

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